lunedì 30 settembre 2013

Buono dentro, bello fuori: così deve essere il vero cibo "Made in Italy"


Il mio amico Daniele Savi, uno dei più grandi esperti di enogastronomia che conosco, un giorno mi raccontava di quanti fantastici prodotti alimentari della nostra migliore tradizione mediterranea siano spesso purtroppo impresentabili per il “vestito” che portano.

Che buono quell’olio extravergine d’oliva, o quei taralli pugliesi… e che dire dei sott’oli toscani e dei salumi emiliani? Sì, ma che brutto marchio, che colori “poco alimentari”, che pessima scelta del materiale del packaging... Insomma, il cibo, prima di arrivare al palato, passa dagli occhi. E molto Made in Italy, di grande qualità organolettica, per pura e semplice  ignoranza delle regole del marketing e della comunicazione di chi li produce, invalida gli sforzi di anni di tradizioni, di “saper fare” del nostro incomparabilmente affascinante e storico territorio.

Questo diventa uno dei motivi (magari il più facilmente evitabile o risolvibile), per il quale realtà di grande gusto dell’enogastronomia italiana, rimangono spesso limitate negli angusti confini di contrade, alimentando quel nanismo dell’impresa del Belpaese che non riesce a fare sistema e a sfruttare né la bontà dei suoi prodotti né la fama del marchio “Made in Italy”, che ricordo essere il terzo brand più conosciuto al mondo.

In un convegno a cui ho assistito di recente si è molto discusso anche di materiali. Si diceva per esempio di quanto sia importante per un “liquido” poter essere visto attraverso un pack trasparente e dal bel design, tipicamente attraverso vasi e bottiglie di vetro, come antichissima tradizione vuole. Sono d’accordo: il cibo Made in Italy deve essere oltre che buono e di qualità anche ben confezionato perché, soprattutto all’estero, è questo ciò che si aspettano da un prodotto italiano: un design dell’involucro all’altezza della nostra fama nel “bello e buono”.

Che dire allora di un vino che invece di essere confezionato nella sua classica bottiglia di vetro, con un bel collarino e un’altrettanto bella etichetta (e ultimamente se ne vedono sul mercato di veramente interessanti…) viene messo su uno scaffale in un terribile cartone? E dell’olio extra vergine d’oliva (passi quello di semi) in una bottiglia di plastica? Che senso hanno queste scelte, se non quello di rappresentare puri contenimenti dei costi, a discapito però del fascino del prodotto, del contenuto emozionale che potrebbe trasferire, incapace così di distinguersi dalla concorrenza di prodotti di altro "made", con caratteristiche sicuramente meno ambite e ricercate?
Si potrebbe trattare del miglior vino e del più pregiato olio, ma non lo vedrete mai sulla mia tavola!!

martedì 16 luglio 2013

"Io sono Cultura" - L'Italia della qualità e della bellezza sfida la crisi


La Cultura è decisamente uno strumento che serve all’Italia per rilanciarsi in questi tempi di recessione e Symbola, la Fondazione per le Qualità Italiane, (www.symbola.net) se ne è occupata in maniera concreta nel suo Rapporto 2013, denominato “Io sono cultura, L’Italia della qualità e della bellezza sfida la crisi”, presentato all’Università di Macerata lo scorso 4 luglio 2013 e realizzato insieme a Unioncamere, con la collaborazione della Regione Marche.

L’Italia, per la sua storia e per i suoi “prodotti”, è conosciuta e globalmente stimata, sia a livello artistico che a livello commerciale. Difatti, in un ranking mondiale sulle diverse tipologie di prodotto esportate, l’Italia si classifica ai primi posti su 5.517 prodotti. Siamo di “tendenza”, infatti, quando si parla di design, moda, meccanica, fino ad arrivare al nostro punto forte, l’agro-alimentare.

Punto fondamentale del rapporto è la scoperta che la Cultura è anticiclica grazie al moltiplicatore culturale, che ci mostra come per ogni euro che si genera in un museo o sito archeologico, se ne producano altri 2 di ricchezza per il territorio. L’artigianato artistico, insieme alle altre industrie creative, ne generano ulteriori 2,1. La produzione di un audiovisivo, di un libro o di una rappresentazione teatrale ancora altri 1,2, dimostrando ampiamente, quindi, che investire in cultura conviene, contraddicendo quanti, in modo superficiale e poco informato affermano che “con la cultura non si mangia”!

La Cultura, inoltre, contamina altri settori in modo diretto: i trasporti, il turismo, il commercio, la comunicazione e il marketing solo per citarne alcuni. Crea un effetto traino che porta a generare valore economico e sociale, cosa assai necessaria in questo momento particolare in cui ci troviamo.
Quando si parla del “sistema produttivo culturale”, ci si riferisce sicuramente al nostro ben conosciuto patrimonio storico-artistico, ma anche alle “performing arts”, cioè  all’intrattenimento, come la radio, il cinema, il design, l’editoria e così via. Se analizziamo il moltiplicatore del settore, in termini monetari, gli 80,8 miliardi di euro di valore aggiunto realizzati da tutti i comparti produttivi che si occupano di Cultura (inclusa la componente pubblica e quella non profit) nel 2012, sono riusciti ad attivare quasi 133,4 miliardi di euro, delineando una filiera culturale intesa in senso lato di 214,2 miliardi di euro, che equivalgono al 15,3% del PIL prodotto dall’intera economia del nostro Paese. Tra le regioni più virtuose, in grado di generare un buon moltiplicatore della ricchezza della cultura, troviamo il Friuli-Venezia Giulia, il Veneto, la Toscana e la Lombardia, seguite dalle Marche. Chiudono questa classifica la Liguria, il Molise, la Sardegna e la Calabria.
 
Nell’attuale situazione, purtroppo, le industrie culturali stanno sperimentando la ritrazione del sostegno pubblico, anche se la logica spingerebbe a non fare inaridire questa vena fertilissima. Ed è così che di fronte ai tagli pubblici subìti, si crea il bisogno di trovare finanziamenti, generando molteplici  iniziative di "crowdfunding digitale", una nuova maniera di raccogliere investimenti privati per progetti attraverso la "rete", come, tanto per citare un esempio, www.siamosoci.com

La Cultura italiana ha dimostrato, attraverso proficui risultati, che è il nostro grande e forse inestimabile patrimonio da conservare e coltivare con cura. Dobbiamo istituzionalmente e come popolo sentire la responsabilità di questo compito. In primo luogo, perché siamo debitori di questa tutela verso il nostro Paese e verso il resto del mondo e, in una prospettiva più commerciale, perché ci restituisce una grande ricchezza sul territorio, come il moltiplicatore culturale dimostra.

Questa risorsa, che è anticiclica, sostiene un’immagine internazionale di commercio molto competitiva, da alimentare con futuri  piani imprenditoriali, anche basati sul crowdfunding, che  rilanceranno e porteranno sempre più valore al territorio di pertinenza.

lunedì 8 luglio 2013

"L'Italia deve fare l'Italia!"


Non mi piace fare l’ottimista a tutti i costi. Ma, parafrasando Sant’Agostino che sosteneva che “il diavolo è solo un modo diverso di guardare Dio”, intendendo con ciò che la medaglia ha sempre due facce da osservare con occhi sinceri e soprattutto onesti, senza pregiudizi di sorta, direi che anche il nostro Made in Italy possa essere valutato secondo diversi punti di vista.

Da una parte, è vero, stiamo perdendo alcuni nostri pezzi pregiati. E’ di queste ore che anche "Loro Piana" è finita sotto le “grinfie” francesi, per esempio. Da questo stesso punto di vista c’è sempre da considerare la progressiva perdita di credibilità di cui, complice una classe politica inadeguata, sta ancora soffrendo il nostro beneamato Paese. “Il modello di specializzazione dell’Italia è molto simile a quello di Paesi emergenti come la Cina – si legge sull’ultimo rapporto, datato 4 aprile 2013, dedicato all’Italia dalla Commissione Europea – con la maggior parte del valore aggiunto in settori tradizionali a bassa tecnologia, principalmente a causa della limitata capacità innovativa delle imprese italiane”.

Ma, è proprio così? Siamo così scarsi con le nuove tecnologie e siamo così poco competitivi in termini di innovazione complessiva? Anche qui dipende dai punti di vista e, soprattutto, dalle lenti del pregiudizio, che condizionano. E non poco.

E’ stato appena pubblicato un importante e decisamente sorprendente rapporto (almeno per chi usa gli occhiali sbagliati) realizzato congiuntamente dalla Fondazione Symbola, da Unioncamere e dalla Fondazione Edison che si chiama “I.T.A.L.I.A. – Geografie del nuovo Made in Italy” che ci mostra e dimostra, numeri alla mano, un’Italia diversa.

Intanto, I.T.A.L.I.A., è un acronimo che sta per “Industria, Turismo, Agroalimentare, Localismo e Sussidiarietà, Innovazione, Arte e Cultura”, in poche parole i pilastri del Made in Italy, le frecce all’arco del nostro Paese nei confronti del mondo. Lo studio è corposo e ne consiglio un’approfondita lettura perché, statene certi, non troverete niente di scontato.

Mi limito a darvi qualche chicca che, spero, vi invoglierà a cercarlo e a scaricarvelo dal sito di Symbola (www.symbola.net).

Cominciamo con un numero: quasi mille prodotti “Made in Italy”, nonostante l’indubbia crisi economica che sta investendo l’Italia come la maggior parte del mondo, generano un saldo commerciale attivo da record di ben 183 miliardi di dollari! Nel rapporto, infatti, mentre si ammette l’indubbia difficoltà di cui sta soffrendo il nostro mercato interno, si sottolinea come non si possano continuare ad adottare parametri obsoleti, quali la quota di mercato detenuta sull’export mondiale, per misurare la competitività del sistema produttivo italiano. Se invece prendiamo come indicatore della nostra competitività la bilancia commerciale dei singoli prodotti, ecco come i risultati cambiano enormemente ed emergono la creatività e la duttilità del nostro Made in Italy, con le conseguenti capacità di far fronte, al mutare degli scenari e ai marosi della crisi economica. Infatti, l’Italia è uno dei soli 5 Paesi del G-20 (insieme a Cina, Germania, Giappone e Sud Corea) ad avere un surplus strutturale con l’estero nei prodotti manufatti non alimentari. Ciò vuol dire che, escludendo l’energia e le materie prime agricole e minerarie, l’Italia è uno dei Paesi più competitivi a livello mondiale. Stupiti? Eppure, lo dicono i numeri, vantiamo quasi 1000 prodotti in cui siamo nei primi tre posti al mondo per saldo commerciale attivo con l’estero. Nel rapporto si usa un’efficace metafora: quella dell’Olimpiade. Se pensiamo al mercato globale come a un’Olimpiade e ai prodotti come altrettante discipline sportive in cui primeggia chi ha un export decisamente migliore dell’import, l’Italia sale sul podio ben 1000 volte! Meglio di noi si comportano solo, e sottolineo solo, Cina, Germania e USA. Ed è ovvio che, se poi guardiamo esclusivamente all’Europa, il campionato europeo lo perdiamo solo nei confronti della Germania, noi ben davanti alla Francia, per esempio, le cui finanziarie stanno facendo shopping dalle nostre parti.

Se andiamo nel dettaglio, continuando con la nostra metafora, l’Italia vanta 235 medaglie d’oro (cioè altrettanti prodotti!) per saldo commerciale. Queste eccellenze del podio ci portano a guadagnare, come sistema Paese, ben 63 miliardi di dollari. Le “medaglie d’argento”, che sono 390, contribuiscono con ulteriori 74 miliardi di dollari di attivo. Completano il podio le “medaglie di bronzo” dell’export italiano: 321 prodotti che portano ancora 45 miliardi di valore complessivo. Da non dimenticare poi i quarti e quinti in classifica, pur sempre altrettante "eccellenze", che sono ben 492 prodotti, che aggiungono ulteriori 38,4 miliardi di dollari, da sommare ai 183 miliardi dei primi tre classificati.

Basta ciò per essere contenti e soddisfatti? Sicuramente no! Il rapporto però traccia delle chiare linee guida per le istituzioni e per la classe dirigente di questo Paese, su quanto l’Italia dovrebbe fare per uscire, e in fretta, da questa crisi, magari addirittura rinforzata rispetto a prima del suo esplodere. La ricetta? "L'Italia, deve fare l’Italia” e null’altro! Sarebbe difatti già molto procedere secondo le “nostre corde”, quelle che abbiamo da secoli a disposizione, grazie alle competenze e alle tipicità accumulate dai nostri territori. Ciò basterebbe ad accaparrarsi sempre più medaglie d’oro sul terreno della competitività mondiale, moltiplicando quindi la ricchezza che da queste si genera e migliorando di conseguenza lo stato di salute della nostra economia.

Mi fermo qui, sperando di avervi solleticato l’interesse per un approfondimento e per una lettura del rapporto completo che, ripeto, per molti versi potrebbe risultare sorprendente. Come diceva Thomas Alva Edison: “Se fossimo ciò che siamo capaci di fare, rimarremmo letteralmente sbalorditi”.

giovedì 20 giugno 2013

"Se qualcosa può andare male, lo farà in triplice copia!" (Arthur Bloch)


Scriveva Ephraim Kishon, in Paradiso come nuovo affittasi, che “I burocrati sono numerosi come i granelli di sabbia in riva al mare. Con la differenza che la sabbia non prende lo stipendio.”
E’ un’opinione diffusa e, purtroppo, confermata dai fatti che se i burocrati e la burocrazia in genere rappresentano una delle “palle al piede” di qualsiasi progresso sociale, politico ed economico, in tutto il mondo, questo aspetto in Italia raggiunge livelli insopportabili. E se ciò è vero sempre e a prescindere, lo è ancora di più in momenti gravemente recessivi come questi, quando sulla velocità delle azioni, sulla rapidità dei movimenti e delle “intraprese” si fondano le possibilità di restare a galla e di non affondare con tutta la nostra bella Penisola.

Quindi, se guardiamo all’esercito dei burocrati che ingrossa le fila delle istituzioni pubbliche italiane, letteralmente osteggiando quel qualcosa che si cerca di fare per rilanciare la nostra economia, la definizione di Kishon ci porta a concludere che oltre al danno dell’immobilità cui ci costringono, dobbiamo metterci anche l’elevato costo pubblico rappresentato da stipendi in buona parte inutili. Naturalmente, non voglio fare di tutta l’erba un fascio, e non voglio dire che tutti coloro che lavorano nella burocrazia italiana siano dei “fancazzisti” succhia soldi. Ci sono anche fior di professionisti, per capacità e correttezza. Resta però il fatto che, anche senza essere il Gabibbo di “Striscia la notizia”, basta girare un po’ l’Italia per mettere insieme un’enciclopedia di vessazioni, di inefficienze, di sprechi e di inettitudini che derivano da uffici pubblici mal gestiti e peggio diretti.

Ma la cosa che trovo più insopportabile è il tentativo di molti di questi signori di evitare di prendersi delle responsabilità. Quelle responsabilità che invece, per ruolo e mansione, dovrebbero accettare e di cui dovrebbero rispondere all’opinione pubblica. Comodo non fare, per non dover poi render conto di quanto fatto!

Il risultato? Tempi lunghissimi per autorizzazioni di qualsiasi natura, imprese che falliscono ancor prima di esser riuscite a compiere un solo atto produttivo, a causa della mancanza di risposte che non arrivano dagli uffici preposti per darle. E un Paese che langue, asfissiato da chi dovrebbe curare gli interessi collettivi e che invece si preoccupa solo dei propri personali e di quelli del “branco” che rappresenta. Del resto, lo descriveva bene già Ennio Flaiano, quando scriveva: “Gli presentano il progetto per lo snellimento della burocrazia. Deplora l'assenza del modulo H. Conclude che passerà il progetto, per un sollecito esame, all'ufficio competente, che sta creando…”.

Cosa aspetta la politica a sfoltire questi uffici e a snellire le procedure per portarci alla pari del resto d’Europa? Sono convinto che noi italiani abbiamo “una marcia in più” dal punto di vista imprenditoriale e del saper fare, ma se questa marcia viene a essere messa costantemente “in folle” dall’apparato pubblico, la macchina non riesce nemmeno a raggiungere la strada e a intraprendere il percorso per raggiungere un obiettivo che, alla fine, dovrebbe essere condiviso. Perché, caro burocrate, su quell’auto ci siamo tutti e se non partirà mai, o se a forza di farla rallentare la fermi completamente, prima o poi rimarrai a piedi anche tu…!

martedì 11 giugno 2013

“Le parole hanno il potere di distruggere o di risanare. Quando sono vere e gentili, possono cambiare il mondo”.


Il Buddha diceva che “Le parole hanno il potere di distruggere o di risanare. Quando sono vere e gentili, possono cambiare il mondo”.

Di solito, non entro nel merito diretto della politica intesa come “competizione fra partiti”, ma stavolta faccio un’eccezione. In fondo, mi occupo da 25 anni di comunicazione e, alla fine, in un modo o nell’altro, qualcosa ho imparato, nel mio piccolo. Mi faccio quindi un po’ i fatti di Grillo e del suo Movimento e mi permetto, in punta di piedi, di far riflettere sul loro modo di fare comunicazione. Perciò, non mi occupo del programma politico, della sua proposta o se il Movimento abbia fatto bene o male a non fare il Governo con Bersani. Ho le mie idee al proposito, ma lascio ad altri esprimere commenti pubblici su ciò. Io guardo alla comunicazione e alle reazioni della gente.

E’ un dato di fatto inconfutabile, penso, che il M5S abbia rappresentato una “ventata di novità” nel panorama politico italiano. E’ altrettanto indiscutibile che l’importante affermazione elettorale ottenuta alle “politiche” non solo lo abbia messo in grado di fare da “ago della bilancia” nella governabilità di questo Paese, ma, anche e soprattutto, abbia imposto serie revisioni interne agli altri partiti e al “sistema politico” in generale. Quindi, credo che gli italiani, a febbraio, fossero in gran parte contenti di questo successo del M5S, anche non avendolo votato, perché era indubbio che, finalmente, qualcosa di nuovo stesse accadendo in questo Paese spesso troppo immobile. Ma, nel giro di tre mesi, questo importante patrimonio “rivoluzionario” è andato perso, forse non irrimediabilmente, ma comunque per ora messo da parte.

Quanti di voi, come me, hanno avuto amici che tradizionalmente votano per  la “destra” o per la “sinistra” politica e che a febbraio hanno votato per il M5S? Molti, vero? Alcuni di questi miei amici, mi hanno proprio sorpreso, quando mi hanno confessato di averlo fatto. Non avrei mai pensato che quella pensionata, innamorata del Cavaliere, lo avrebbe “tradito” con Grillo; né che quel giovane attivista del PD, si sarebbe fatto affascinare dal Movimento “non partito”, mettendoci sopra una X sulla scheda elettorale. Eppure, è successo, e per milioni di voti!

Ma di questi miei conoscenti, coloro almeno che si sono dovuti confrontare con le “amministrative” e che quindi han dovuto rifare la scelta elettorale, non uno ha rivotato il M5S, preferendo il ritorno alle vecchie e tradizionali liste civiche espressioni di più rassicuranti – evidentemente per loro – modi di fare politica.

Io credo che l’errore di Grillo in questi mesi sia stato evidente. Continuare a vedere il “bicchiere mezzo vuoto”, l’Italia sull’orlo del fallimento, ribattere in maniera martellante la mancanza di speranza per questo povero Paese, il darci già tutti per spacciati non può farti andare troppo lontano. O meglio, serve all’inizio, quando diventi collettore di tutto il malcontento di un Paese, di tutta la rabbia che si è accumulata contro una classe politica privilegiata e inetta che ha fatto ben poco per il bene comune. Ma poi la gente ti ha votato e, di conseguenza, si aspetta delle proposte, se non addirittura la conduzione del sistema, il governo, la responsabilità di chi fa. Continuare a inveire, a ululare alla luna, a vedere la tragedia dietro l’angolo non solo non serve, ma porta il popolo a prendere le distanze, soprattutto gli italiani, se non altro per stanchezza e bisogno di una luce in fondo al tunnel. E’ vero che un pessimista è “un’ottimista bene informato”, ma dopo, a lungo andare, la tua pesantezza ti fa fare la fine di Totò nel film in cui interpretava lo iettatore (“anatema a te!”): la gente ti evita e fa gli scongiuri pur di non aver più a che fare con la tua maledizione perennemente lanciata! Insomma, nella storia della comunicazione politica di tutto il mondo si può vedere come, dopo un periodo di sacrosanta denuncia e informazione, subentri la fase della proposta non urlata, ma concreta, del rispetto di chi la pensa diversamente da te e un domani potrebbe anche sostenerti. Arriva il momento dell’ “I have a dream”, del “Yes, We can” ecc.

Allora tutti gli anni sprecati dalla sinistra italiana a cercare di cancellare, sempre con la comunicazione, la controparte berlusconiana con le accuse “ad personam”, perdendo poi regolarmente le elezioni, non hanno insegnato niente? Intanto, si dovrebbe imparare che, alla fine, la gente, anche se magari passa una prima fase di rabbia, tende poi a prendere le parti dell’underdog, come dicono gli anglosassoni, cioè delle vittime, degli accusati, per quello spontaneo movimento di identificazione verso chi viene vessato da insulti e accuse che non riescono però a dargli il KO definitivo, e che alla lunga anzi lo rinforzano. E poi, perché se tutto il tuo impegno sta nel cercare dialetticamente di cancellare l’avversario, non ti rimane spazio per dire cosa andrebbe fatto per evitare che la barca affondi. O, perlomeno, alla gente non arriva più la tua proposta perché assillata dalle accuse, dalle battute, dalle irrisioni nei confronti dei tuoi avversari politici, dei loro elettori, dei giornalisti e dei media in generale. Anatema verso tutto e tutti, perciò, con il risultato che corriamo a cercarci in tasca l’amuleto personale, ma forse mettiamo da parte, magari definitivamente, quella speranza che qualcosa sarebbe cambiato e che questo Paese sarebbe diventato, dal punto di vista politico e istituzionale, un po’ più “normale” e moderno! Peccato…

martedì 4 giugno 2013

Ecogreen per l'Italia: evviva!!


Chi mi conosce sa che da anni personalmente mi batto, nel mio piccolo, per un’Italia cha abbracci definitivamente, senza reticenze e tentennamenti, la via della Soft Economy. Il che vuol dire la strada dell’economia che si sposa con il territorio, e quindi sia sostenibile; della preservazione dell’arte e della cultura che ci rendono senza uguali nel mondo; della conservazione di un ambiente, e della biodiversità che ne è espressione, di peculiare bellezza.

Un anelito di speranza affinché si uniscano le forze per promuovere ciò che a me e a molti altri sembra ovvio, ma che i nostri governanti e le nostre istituzioni politiche fanno finta di non sapere e di non vedere, ci arriverà il prossimo 28 giugno da Roma, giorno in cui sarà battezzato “Ecogreen per l'Italia”, un’iniziativa promossa da persone con storie diverse, unite però dalla convinzione che per affrontare la crisi di oggi “serva un radicale cambiamento culturale nelle classi dirigenti e serva un ‘green new deal’, un nuovo patto sociale all’insegna della green economy e dell’ecologia”, come si legge sul manifesto di costituzione.

L’appuntamento sarà quindi a Roma, all’Auditorium del Maxxi, Museo romano d’arte contemporanea progettato da Zaha Hadid, e durerà dal mattino alle 10,00 al pomeriggio alle 17,00 di venerdì 28 giugno. Saranno presentati nell’arco della giornata le idee, le proposte e gli obiettivi di Ecogreen.

Per chi volesse avere maggiori informazioni è possibile scaricare il manifesto che spiega il senso dell’iniziativa cliccando su http://ecogreenitalia.wordpress.com

Sarebbe lungo riportarvi qui il manifesto, articolato e ben fatto, che credo vada letto per come è stato redatto, per intero, lasciando al lettore il modo di “sentirselo proprio” o meno. Ci tengo però a evidenziare che Ecogreen per l’Italia si definisce un’”impresa politica”, che vuol dare nuova speranza all’Italia partendo dall’idea che un’economia e una società “green” siano la risposta più efficace e promettente agli importanti problemi che oggi siamo costretti ad affrontare, e non solo in Italia.

Ecogreen vuole proporre un nuovo patto sociale fondato sulla green economy e sulla conversione ecologica di produzioni e consumi. Ciò al fine di “risollevare l’Italia nel segno della sostenibilità ambientale e sociale; per creare ricchezza senza distruggere la natura, il paesaggio e gli equilibri ecologici; per creare lavoro investendo nella qualità ambientale e nelle altre grandi risorse immateriali come l’educazione, la cultura, la conoscenza, la coesione sociale, la partecipazione democratica, la legalità.”

Sempre sul manifesto si legge:  “Amiamo l’Italia e per questo la vogliamo più sostenibile, più dinamica, più equa, più civile. Crediamo che il nostro Paese abbia le risorse materiali e morali, il patrimonio di saperi scientifici e tecnologici necessari a garantire una prospettiva di sviluppo duraturo e di benessere diffuso; ma tale possibilità non è scontata e per concretizzarla occorre dare una nuova centralità ai valori dell’equità sociale, della sostenibilità ambientale, dell’etica pubblica, della promozione del merito individuale."

Come dirlo meglio? Forza Ecogreen: siamo con voi!!!

lunedì 20 maggio 2013

Belli e Ben Fatti!


Una recente ricerca del Centro Studi Confindustria e di Prometeia ha confermato quanto il prodotto “bello e ben fatto” del Made in Italy sia ancora, recessione o no, una variabile vincente per poter rilanciare la nostra economia. La ricerca, giunta alla sua IV edizione e chiamata efficacemente “Esportare la Dolce Vita”, evidenzia, qualora ce ne fosse ancora bisogno, che le importazioni da parte dei soli Paesi emergenti dei prodotti BBF (Belli e Ben Fatti) crescerà fino a 169 miliardi, traguardo previsto per il 2018! Ben 54 miliardi in più rispetto al 2012, con un aumento del 47%. In “pole position” in questa eccezionale crescita ci sono la Russia, la Cina e gli Emirati Arabi Uniti.

Questo dato, di per sé più che interessante, assume ancora maggior valore se consideriamo che non sono inclusi nel prodotti BBF i beni di lusso, ma solo quelli di fascia medio-alta dell’alimentare, dell’arredamento, dell’abbigliamento, delle calzature e del tessile casa. A questi settori si aggiungono, per la prima volta in questa edizione recentemente presentata a Milano, l’occhialeria e l’oreficeria-gioielleria.

La  ricerca poggia la sua previsione anche su un’altra evidenza: nel 2018 ci saranno nel mondo ben 194 milioni di nuovi ricchi oltre quelli già censiti nel 2012. E detta alcune raccomandazioni, fondamentali per riuscire a raggiungere e implementare questi obiettivi decisamente alla portata del nostro Paese e dei nostri imprenditori. La produzione culturale italiana, per esempio, deve essere assolutamente rafforzata, perché in grado di consolidare l’immagine del BBF nel mondo trasmettendo valori e contenuti dell’Italian style of life, di traino a tutto il resto delle nostre esportazioni; poi, le istituzioni devono spingere affinché la nostra imprenditoria difenda l’importanza della filiera del BBF, che garantisce la qualità del prodotto italiano, rinsaldando l’immagine che all’estero viene percepita del Made in Italy. Anche perché si deve tenere presente che  il tessuto imprenditoriale del BBF, composto da 15mila imprese, rappresenta un quinto delle imprese manifatturiere esportatrici italiane, con una dimensione contenuta, ma con una grande vocazione proprio all’internazionalizzazione.

Ancora una volta ci tengo a dire: abbiamo già molto in Italia, innanzitutto il nostro immenso patrimonio artistico e culturale. Abbiamo poi una rete di imprese, in parte già portate per indole all’esportazione, che rappresenta lo zoccolo duro del Made in Italy e che ha ben fatto nel passato contribuendo non poco alla costruzione di questa solida immagine del nostro prodotto all’estero. Infine, i mutanti scenari dell’economia mondiale, con  l’emergere di Paesi che identificano un nuovo e potenzialmente fortissimo bacino di sbarco e di utenza per il nostro “saper fare”. Tutto ciò si traduce in un grandissimo potenziale di benessere per la nostra Italia e per noi che ci viviamo. Saremo mai capaci di comprendere che siamo alla guida di una Ferrari che richiederebbe solo un po’ di buon senso per vincere il Gran Premio della vita e della storia di questo nascente Terzo Millennio?

martedì 14 maggio 2013

La carta e il territorio


Da tempo sono convinto che in Italia abbiamo già tutto per uscire da una crisi economico-sociale nella quale, con maggiore consapevolezza in più da parte dei nostri connazionali e delle nostre istituzioni politiche nazionali e territoriali, non saremmo mai dovuti entrare o che, perlomeno, avremmo dovuto vivere solo marginalmente. E non sembri un’esagerazione quanto affermo!

Abbiamo il 65% del patrimonio culturale del mondo che, detta così, già colpisce come dato, e quasi spaventa, per il preponderante, direi schiacciante peso che la nostra nazione ha nel racconto della storia umana su questo pianeta. Eppure, non riusciamo ancora a valorizzare questo enorme tesoro che i nostri antenati ci hanno messo a disposizione. Non solo, ma lo stiamo progressivamente perdendo se presto non vi metteremo coscientemente e coscienziosamente mano.

In un contesto globale, in cui gli equilibri dell’economia cambiano e all’era dell’industrializzazione e della globalizzazione si sostituisce quella della terziarizzazione, del ritorno all’artigianato e della riscoperta dei territori, molti Paesi stanno cercando, non senza voli pindarici, di trovare argomenti e oggetti che possano dare risposta nell’offerta a questo nuovo tipo di domanda. Ma noi italiani abbiamo già tutto e, in fondo, noi delle ultime generazioni, la pappa ce la siamo trovata pronta.

Avete letto, per esempio, “La Carta e il Territorio” del francese Michel Houellebecq ? Racconta di una Francia dei decenni a venire in cui la gente torna a popolare i territori rurali, che progressivamente avevano perso attrattiva nell’era dell’urbanizzazione di massa tipica della fine del secolo scorso, perché la campagna e le tradizioni tornano di moda e i ricchi di tutto il mondo rivalutano un modo antico di vivere. Questo trasforma la Francia in una sorta di grande parco divertimenti. “Di fatto, i nuovi abitanti delle zone rurali non assomigliavano affatto ai loro predecessori. Non era stata la fatalità a indurli a lanciarsi nell’attività artigiana del cestaio, nel rinnovamento della casa contadina da affittare a turisti o nella produzione di formaggi, ma un progetto d’impresa, una scelta economica… Questa nuova generazione si mostrava più conservatrice, più rispettosa del denaro e delle gerarchie sociali. In modo sorprendente, il tasso di natalità in Francia era effettivamente risalito, senza tenere conto dell’immigrazione che si era comunque azzerata dopo la scomparsa degli ultimi lavori industriali e la riduzione drastica delle misure di previdenza sociale, all’inizio del terzo decennio del 2000”.

Appare evidente, quindi, come tutto il mondo stia cercando di tornare a una dimensione di vita, di produzione e di consumi più a misura d’uomo. Ciò ha niente a che vedere con la “decrescita felice”, anzi. L’obiettivo è invece quello di ritrovare un benessere cresciuto e diffuso, legato ai territori che viviamo e meno accentrato sia nelle mani di pochi individui che di pochi luoghi.  Il segreto sta nel continuare a crescere dal punto di vista sociale ed economico – il che significa una più equa ripartizione delle risorse e non una crescita indifferenziata e illusoriamente illimitata dei PIL – senza essere ostili verso il territorio di appartenenza, oltraggiandolo con comportamenti lesivi, ma anzi difendendolo e valorizzandolo. Solo così il mondo di potrà salvare e solo così l’Italia potrà tornare a essere “caput mundi”: facendo l'Italia!

mercoledì 24 aprile 2013

L'energia del territorio


Facendo il mio lavoro si incontrano tante realtà italiane eccellenti e progetti per cui vale la pena impegnarsi con la gioia di contribuire alla loro comunicazione e al loro successo. Si dice che l’Italia sia sempre meno verde, ma è proprio vero? In realtà, il progressivo abbandono dei terreni agricoli (negli ultimi trent’anni si è passati da 22,7 milioni di ettari a 17,27) ha portato a un aumento vertiginoso della superficie forestale, che ha raggiunto gli 11 milioni di ettari (dal 1920 a oggi è triplicata). Se consideriamo che oltre il 50% di quest’area è in stato di abbandono e che un bosco trascurato mette il territorio circostante a rischio di incendio e di dissesto idrogeologico, possiamo capire quanto grande sia il problema cui ci troviamo di fronte. Esiste una soluzione? Renovo, un’azienda di Mantova attiva nello sviluppo di progetti legati alle energie rinnovabili, è convinta di sì e l’ha trovata nella trasformazione del “cippato” da bosco in biomasse e quindi in energia. Ciò quanto sta alla base del progetto “Energia a KM 0”, che prevede la costruzione di piccole centrali termiche alimentate a biomassa proveniente da filiera corta. Oltre al cippato da bosco le centrali impiegheranno gli scarti agroindustriali (resti di ulivi e vigne) raccolti nei territori adiacenti agli impianti. Secondo la visione di Renovo, questo è il miglior modo per trasformare degli oneri ambientali per la società (in termini di rischio e di costi di smaltimento) in vere e proprie risorse da trasformare in energia termica messa a disposizione a prezzi vantaggiosi per gli abitanti e gli imprenditori locali. Questo progetto, però, non si ferma al vantaggio ambientale per i territori coinvolti: Renovo, infatti, ha stipulato un accordo con il consorzio CGM, una rete di cooperative sociali su scala nazionale, che prevede l’utilizzo di persone svantaggiate economicamente per le attività di recupero delle biomasse e di gestione degli impianti. Ma Renovo non si ferma qui: per le sue centrali ha voluto esclusivamente tecnologie italiane e all’avanguardia nel mondo. Possiamo quindi definire la società un’eccellenza del Made in Italy a tutto tondo che, con la propria attività, sostiene i territori dove decide di investire e aiuta l’ambiente e lo sviluppo di una tecnologia energetica che rappresenta una valida alternativa al consumo di risorse fossili. Sono questi i casi di eccellenza italiana che credo possano dare un presente, ma soprattutto un futuro al nostro Paese.

mercoledì 10 aprile 2013

Cuori in putrefazione...


Non mi piace per niente l’aria che si respira in Italia in questo periodo! In realtà, è da anni che è fetida, ma adesso siamo, secondo me, a livelli di guardia mai raggiunti. Grillo dice che vuole che si faccia come è successo in Egitto. A me questo ricorda solo moti di piazza con morti e feriti e, francamente, credo che si debba essere una mente disturbata per augurarselo. Però è vero che se vai in giro per le strade, se leggi i giornali, se visiti e frequenti i social network, la “rete”, come oggi si dice quasi fosse un soggetto provvisto di anima, non vedi e leggi che facce arrabbiate, insulti pesanti, malauguri truculenti, “vaffandate a quel paese”: tutti contro tutti, tanto peggio tanto meglio e via così, si salvi chi può o, meglio, non si salvi nessuno!!!

Ma che ci sta succedendo? Quale mente diabolica sta invadendo i nostri cervelli e i nostri cuori? Ma chi può veramente credere che solo prendendoci a “pistolettate” per strada potremo risolvere qualcosa? Neanche nei momenti peggiori degli anni di piombo, quegli anni ’70 nei quali sono stato un preoccupato, ma socialmente e politicamente attivo adolescente, avevo mai vissuto la cattiveria che percepisco oggi nell’aria.

Rinsaviamo gente! Non dico che dobbiamo tutti diventare santi o imitare Papa Francesco, ma metterci una mano sulla coscienza forse sì. Prima di inveire contro lo Stato assente nelle tragedie dei nostri vicini di casa che si suicidano per disperazione, forse dovremmo chiederci se a quei vicini abbiamo mai offerto una mano, un aiuto, un’assistenza, fosse anche solo psicologica e umana. Tutti con gli occhi e le orecchie puntate su quanto succede a Roma, nei palazzi del potere, oppure sui nostri terminali che ci inondano di invettive e cattiverie mediatiche, e nessuno che guarda più negli occhi di chi gli sta accanto…che tristezza: sento veramente una gran puzza nell’aria, quella dei cuori in putrefazione!

giovedì 7 marzo 2013

Made in Italy: biglietto di "andata e ritorno"!


Da sempre, l'Italia è uno dei Paesi più “esportatori” del mondo. Il nostro manufatto è molto apprezzato all’estero e, spesso, il cosiddetto “italian sounding” vende per miliardi di euro anche se, dietro a quei nomi che richiamano il tricolore, di italiano c’è ben poco. Ma all’estero poche aziende del Made in Italy riescono ad andare con profitto. Servono spesso capacità finanziarie, logistiche, imprenditoriali e di marketing che non tutte possiedono. Eppure, le aziende italiane che si affermano all’estero sono delle buone ambasciatrici del nostro “saper fare” e quindi, se da un lato esportano – e quindi generano ricchezza e occupazione per se stesse – dall’altro importano attenzione, apprezzamenti, reputazione e quindi ulteriore ricchezza per tutto il nostro virtuoso sistema produttivo territoriale. Ma rimane il problema delle dimensioni, dato che buona parte del comparto del Made in Italy di qualità è caratterizzato da un nanismo che fa fatica a raggiungere la massa critica necessaria per affrontare i mercati esteri. Pensate a cosa voglia dire, per esempio, affrontare i cosiddetti BRIC – Brasile, Russia, India e Cina – le nazioni che oggi stanno “tirando” l’economia mondiale: si tratta di quasi tre miliardi di persone! Senza dimenticare poi i Paesi OPEC, l’Africa Subsahriana, Dubai, l’Indonesia luoghi dove molta ricchezza è stata portata e viene generata.  Parliamo di territori sterminati, lontani e con pubblici numerosi ed eterogenei per cultura, religione, sistema politico e valori. Quindi, non basta avere l’intenzione di andarci con i propri prodotti e neanche, spesso, sono sufficienti  le capacità finanziarie che rischiano di essere dilapidate di fronte a società complesse con le quali l’imprenditore italiano non riesce a interagire, incapace di creare  un corretto rapporto commerciale con gli stakeholder locali. Ecco, quindi, la necessità di costruire un sistema che aiuti concretamente le imprese italiane ad andare all’estero. I mezzi a disposizione sono ancora troppo pochi, segno evidente che le nostre istituzioni politiche e territoriali ancora non hanno una “strategia Paese” chiara, forte, univoca e distintiva e non stanziano opportune risorse. Insomma, mi sembra sia ancora poco chiaro quanto potremmo contare su un economia nazionale più solida se solo ci fosse un supporto politico alle aziende per commercializzare all'estero, tornando più forti e con più mezzi per investire sul nostro territorio, implementando così le peculiari eccellenze locali che da sempre costituiscono il nostro "genius loci". Ma, in mancanza della politica, ancora una volta, tocca ai privati provarci. Quindi, a mio avviso, le aziende devono cercare, e semmai creare, piattaforme comuni dal punto di vista logistico, finanziario e di comunicazione e marketing. In questo, i consulenti possono fare molto per contribuire a creare reti di eccellenza che si rechino all’estero portando il “saper fare italiano” che contrasti e controbilanci il purtroppo diffuso e conosciuto “saper dire italiano senza costrutto” di una nostra certa classe dirigente politica.

venerdì 22 febbraio 2013

God Save The King


Che l’anticonformismo, in quanto padre della creatività, sia un valore portante del Made in Italy è fuori discussione. E pure io, nel mio piccolo, lo sposo in pieno. E, pertanto, la prima storia che voglio raccontarvi all’interno di questo blog sotto il segno del tricolore comincia a Londra e parla di una prossima incoronazione. Ma non è certo quella del “polveroso” Carlo, recentemente definito da Massimo Gramellini, “Principe di tutti i Precari in stand-by del mondo”, dato che l’inossidabile Elisabetta di mollare la corona sembra non volerne proprio sapere. Il nuovo re d’Inghilterra, con l’Inghilterra, ha poco a che fare, se non fosse che è in trattativa avanzata per comprare, alla modica cifra di 120 milioni di Euro, l’Admiralty Arch, un vero e proprio monumento nazionale su Trafalgar Square, per farne un top hotel di lusso e dare così una mano a risanare il debito pubblico britannico.  Non è un eccentrico volgarotto Tycoon in competizione con Mrs. Windsor.  E’ proprio  un Re.  Sulla stampa internazionale, dal Wall Street Journal a Time Magazine, viene da quasi 35 anni chiamato semplicemente Re Giorgio. Pur non avendo una goccia di sangue blu, pur essendo nato a Piacenza, pur  avendo cominciato la sua carriera alla Rinascente. Ma che sia un vero Re lo si intuisce dalla sua vita che più che privata è segreta. Dal suo impeccabile understatement in jeans e t-shirt nera che si concede ai rituali della mondanità meno dello stretto indispensabile. Giorgio Armani è, di fatto, un’icona di autentica imprenditoria italiana (guai a chiamarlo stilista). Lui è quello che si è permesso, in quel  trionfo di stravaganza che sono stati gli anni ’80, di imporre uno stile tutto giocato sulla sottrazione, sulla destrutturazione e sul minimalismo. Lui è quello che non ha mai rincorso i corsi e ricorsi della moda perché il suo stile, sempre fedele a se stesso, è comunque un “innovativo assoluto” e, come tale, contemporaneo in ogni epoca. Lui è quello che ha inventato il “greige”, un cromatismo che prima non esisteva. Ricordo un'estate, ero ragazzo, in cui in una calda sera su una spiaggia spagnola indossavo una maglietta con la celebre aquila. Niente di speciale.  Ma in quella occasione sono stato immediatamente avvicinato da un gruppo di turisti americani che con gli occhi trasognati bramavano di sapere dove l’avessi comprata. Per me era semplicemente una bella maglia, per loro era il desiderio supremo. E, in quel momento, mi sono sentito davvero “fiero” di essere italiano. A condividere, almeno il Paese di nascita, con uno come Giorgio Armani: l’artigiano che fa opere d’arte. Mi è capitato di conoscere alcune persone del suo staff. Tutti dichiarano l’enorme fatica a “stargli dietro”. Dato che lui, il quasi ottantenne Re Giorgio, tra l’inaugurazione di un “Emporio” a Tokyo e quella del suo albergo a Dubai, sta ancora li a misurare gli orli, a scegliere personalmente ogni singola fotografia o a perfezionare, ago e filo alla mano, gli abiti sulle modelle pronte per uscire in passerella. Poi, i suoi abiti dalla passerella vanno direttamente al Guggenheim, sui red carpet di Hollywood, ma anche sulle strade di tutto il mondo addosso alla gente comune. Dato che Re Giorgio ha sempre mantenuto, al contrario di molti suoi colleghi, un ferreo e imprescindibile legame con il mercato. D’altra parte, per uno che, nel regno dell’effimero sublime, dichiara che “eleganza non significa essere notati, ma essere ricordati”, non può che essere così. Ed è sempre da lui che parte, oggi, un accorato quanto preoccupato segnale circa la situazione italiana. "Chiunque governerà il nostro Paese", spiega dalle pagine del Sole 24 Ore, "deve dare una mano a chi tutti i giorni tiene alta l'immagine dell'Italia: gli artigiani e le imprese del settore realizzano manufatti bellissimi, che milioni di consumatori nel mondo hanno l'ambizione di possedere". Lancia anche un messaggio alle banche. "Sarebbe un suicidio" - spiega - "non supportare chi lavora seriamente e vuole internazionalizzarsi e anche le banche dovrebbero fare la loro parte. Purtroppo, qui in Italia siamo specialisti nella mancata valorizzazione di quel che sappiamo fare meglio".  E queste sono decisamente parole di un re. Un saggio re...

lunedì 18 febbraio 2013

Malati d'altrismo


MALATI D’ALTRISMO
Dell’Italia ghettizzata da antipatici luoghi comuni e del loro potere svalutante ho già parlato. Ma c’è dell’altro. Che più che un luogo comune è un luogo reale con cui ci imbattiamo tutti i giorni, a partire dal momento in cui, magari prima di entrare in ufficio, ci fermiamo per un caffè corroborante. E’ il bar. Ascoltiamo le conversazioni. Oggi i temi sono principalmente due. Calcio e politica. Ma non è ovviamente di calcio che voglio parlare. E neppure di politica. Se non fosse che le conversazioni in questo ultimo attualissimo ambito sono tutte un botta e risposta, assolutamente bipartisan, che iniziano con un “si vabbè, ma l’altro è anche peggio”. Bene, spostiamoci dal bar al divano davanti al televisore: nei salotti dei talk show l’adagio è assolutamente lo stesso. Non ho mai condiviso il buonismo un po’ fasullo de ”l’importante è  partecipare”, né l’arrivismo machiavellico del “vincere a tutti i costi”. Ma sicuramente la logica de “l’importante è far perdere l’altro, quello anche peggio” mi spaventa anche di più. Perché di peggio in peggio si tocca il fondo e da lì si scava un peggio più profondo. Per questo, nella mia attività di comunicatore, quando nel contatto con manager, imprenditori, rappresentanti delle istituzioni e comuni cittadini sento che l’”altro peggio” comincia ad essere un po’ troppo presente, mi permetto immediatamente di denunciare la sintomatologia dell’”altrismo”. Un virus endemico e assai contagioso che  si manifesta con un’irresistibile inclinazione qualunquista a rispondere a una critica verso qualcuno, prendendo di mira un altro, come paragone. E quindi se qualcuno fa male, l’altro fa peggio, e quell’altro “non ne parliamo neppure” e, comunque, “in fondo sono tutti uguali”. E’ un virus difficile da estirpare, l’altrismo. Ha radici profonde. Ne avvertivo forse i primi sintomi nel “governo ladro” responsabile della pioggia che sentivo citare da bambino. Ma adesso è scoppiato in tutta la sua virulenza. Ed è causa di buona parte dei mali del nostro Paese.
E’ l’altrismo, infatti, che porta all’appiattimento delle critiche; all’aberrante creazione di una fogna nella quale comprendere chiunque, in quella tragica visione che tanto nessuno potrà fare meglio, ma, anzi, non potrà che peggiorare la situazione.
E’l’altrismo che paralizza il Paese in un mancato ricambio della classe dirigente, spesso fallimentare e farlocca, che non rende conto dei misfatti compiuti solo perché l’italiano medio non decide di cambiare di fronte alla delusione, convinto che “tanto l’altro non sia meglio”.
E’ l’altrismo che provoca una pericolosa dipendenza dalla sfiducia che genera sfiducia e che di fatto fa in modo di perpetuare la fiducia a chi non la merita, ma che, tra un “ma figurati” e un “è tutto un magnamagna”, continua, appunto, a mangiare ben pasciuto.
E’ l’altrismo che rende ciechi. Rispetto ad una prospettiva di cambiamento. Rispetto ad un “altro meglio”, che magari ha davvero voglia di prendersi la responsabilità di migliorare le cose e di ridare respiro al futuro. E’ successo in molti parti del mondo che non è tutto uguale e che non è tutto paese. E credo sia il momento che succeda anche qui. Perché forse di altrismo non si muore. Ma come sopravvivere paralizzati, avvelenati e ciechi?

martedì 5 febbraio 2013


Ci sono un Italiano, un tedesco e un francese…
Le barzellette si sa, la prima volta fanno ridere, la seconda un po’ meno, la terza danno decisamente fastidio. Soprattutto se confortate dalla realtà. E quindi, a fianco di un “Made in Italy” che è su scala planetaria sinonimo di eccellenza, gusto, lavoro, storia e cultura, ce n’è un altro con la “m” decisamente minuscola che occupa le copertine della stampa internazionale, ma su cui c’è ben poco da sorridere, perlomeno in Italia. E’ quello delle mafie, della corruzione, della millanteria, dei pressapochismi e di una burocrazia malata. Ce n’è un terzo, altrettanto poco edificante nella sua “maiuscola” capacità di rappresentare, al peggio, l’italianità nel mondo. Dico al peggio perché sto parlando proprio di quella classe deputata ad essere la voce legittima e istituzionale del popolo italiano. La classe politica appunto. Mi rendo conto che affrontare un tema di tale portata in questo momento espone a non pochi rischi. Il primo è quello di fare di tutta un’erba un fascio. Conosco infatti tanti politici “professionisti” nella migliore accezione del termine. Seri, responsabili e “integri”. Poi si corre il pericolo di buttare via il bambino insieme all’acqua sporca. E qui mi riferisco alla cosiddetta “antipolitica” costellata di demagoghi anarcoidi con il loro disfattismo nichilista fatto di iperboli tese solo a fomentare lo sdegno popolare. Molto pericoloso perché, come insegna la storia, è l’embrione della dittatura. Stabiliti i due limiti della retta, in mezzo c’è la cosiddetta casta. Fatta di politici “per privilegio” più che per impegno e senso della cosa pubblica. La cui notorietà è in grado di gettare in un cono d’ombra quell’altra Italia che la reputazione se l’è costruita con l’impegno del lavoro, di giorno in giorno e di generazione in generazione. Che non ha avuto niente per “investitura divina” e che, con questo niente, è riuscita a fare così tanto. E’ davvero triste che questa Italia, quella vera, sia zittita dalle cortigianerie dei cabarettisti di regime. Dalla farloccaggine di promesse puntualmente disattese e riformulate, perché tanto la colpa del fallimento è sempre di qualcun altro; per non parlare del chiacchiericcio pretestuoso sulla difesa dello “spread”, concetto che fino a pochi anni fa otteneva ben poco seguito al di fuori delle aule bocconiane, come unico parametro su cui valutare la distanza dallo sprofondo. No, l’Italia non merita tutto questo anche se di tutto questo è importante che prenda la chiara consapevolezza di una responsabilità che deriva direttamente dall’esercizio elettorale. Io, da oltre venticinque anni, mi occupo di comunicazione e da sempre sostengo che la comunicazione, gestita ad arte, faccia diventare grandi perfino i piccoli e i meschini: “ed è sempre così ed è così che finisce sempre”, come recita Lawrence Ferlinghetti. Ma io  vorrei dare un finale diverso a questo racconto cominciato così male. Dalla mia parte ho le storie –  tutte vere – dell’Italia che, da comunicatore, non ho mai smesso di raccontare. L’ambizione che una piccola voce, come la mia, possa contribuire ad amplificare quell’Italia che è stanca di essere “piccola” o zittita. La speranza che quell’Italia ricominci a scrivere in prima persona la sua storia. Anche partendo da una introduzione, come questa, in cui c’è ben poco da ridere...

lunedì 28 gennaio 2013

UN'ALTRA ITALIA


C’è un’Italia in ginocchio, un’Italia degli scandali, un’Italia misurata dallo spread, un’Italia corrotta e alla deriva, un’Italia che è luogo comune, un’Italia al gioco delle profezie dello sprofondo. Di queste Italie ne parlano tutti, ovunque e da molto tempo. Non lo farò io. Non sarò io a celebrare l’ennesima liturgia dell’imminente catastrofe. L’Italia che voglio raccontare è l’altra Italia. L’Italia che resiste e che crede in se stessa. L’Italia che si alza presto la mattina perché c’è tanto da fare. L’Italia delle idee che viaggiano nel mondo. L’Italia degli uomini che credono nel potere del “fare” e che fanno imprese che attraversano i continenti. Ma anche l’Italia “piccola”, quella che “nel suo piccolo” crea la grande eccellenza, e che quindi a ben guardare poi tanto piccola non è. L’Italia che non ha mai smesso di fare l’Italia, quella da cui rinasce anche quell’Italia che adesso sembra tutta da rifare. E che merita che qualcuno ne racconti la storia. A partire da qui.