Da sempre, l'Italia è uno dei Paesi più “esportatori” del mondo.
Il nostro manufatto è molto apprezzato all’estero e, spesso, il cosiddetto
“italian sounding” vende per miliardi di euro anche se, dietro a quei nomi che
richiamano il tricolore, di italiano c’è ben poco. Ma all’estero poche aziende
del Made in Italy riescono ad andare con profitto. Servono spesso capacità
finanziarie, logistiche, imprenditoriali e di marketing che non tutte
possiedono. Eppure, le aziende italiane che si affermano all’estero sono delle
buone ambasciatrici del nostro “saper fare” e quindi, se da un lato esportano –
e quindi generano ricchezza e occupazione per se stesse – dall’altro importano
attenzione, apprezzamenti, reputazione e quindi ulteriore ricchezza per tutto
il nostro virtuoso sistema produttivo territoriale. Ma rimane il problema delle
dimensioni, dato che buona parte del comparto del Made in Italy di qualità è
caratterizzato da un nanismo che fa fatica a raggiungere la massa critica necessaria
per affrontare i mercati esteri. Pensate a cosa voglia dire, per esempio,
affrontare i cosiddetti BRIC – Brasile, Russia, India e Cina – le nazioni che
oggi stanno “tirando” l’economia mondiale: si tratta di quasi tre miliardi di
persone! Senza dimenticare poi i Paesi OPEC, l’Africa Subsahriana, Dubai, l’Indonesia
luoghi dove molta ricchezza è stata portata e viene generata. Parliamo di territori sterminati, lontani e
con pubblici numerosi ed eterogenei per cultura, religione, sistema politico e
valori. Quindi, non basta avere l’intenzione di andarci con i propri prodotti e
neanche, spesso, sono sufficienti le
capacità finanziarie che rischiano di essere dilapidate di fronte a società
complesse con le quali l’imprenditore italiano non riesce a interagire, incapace
di creare un corretto rapporto
commerciale con gli stakeholder locali. Ecco, quindi, la necessità di costruire
un sistema che aiuti concretamente le imprese italiane ad andare all’estero.
I mezzi a disposizione sono
ancora troppo pochi, segno evidente che le nostre istituzioni politiche e
territoriali ancora non hanno una “strategia Paese” chiara, forte, univoca e
distintiva e non stanziano opportune risorse. Insomma, mi sembra sia ancora poco chiaro quanto potremmo contare su un economia nazionale più solida se solo ci fosse un supporto politico alle aziende per commercializzare all'estero, tornando più forti e con più mezzi per investire sul nostro territorio, implementando così le peculiari eccellenze locali che da sempre costituiscono il nostro "genius loci". Ma, in mancanza della politica, ancora una
volta, tocca ai privati provarci. Quindi, a mio avviso, le aziende devono
cercare, e semmai creare, piattaforme comuni dal punto di vista logistico,
finanziario e di comunicazione e marketing. In questo, i consulenti possono
fare molto per contribuire a creare reti di eccellenza che si rechino all’estero
portando il “saper fare italiano” che contrasti e controbilanci il purtroppo diffuso e
conosciuto “saper dire italiano senza costrutto” di una nostra certa classe
dirigente politica.