venerdì 21 febbraio 2014

L'autorete della Rete...


Da tempo sostengo che la sovrabbondanza di comunicazione farlocca, non veritiera, millantata, urlata, “fanculeggiata” porterà non solo alla morte della professione del comunicatore, ma anche alla seria messa in discussione dei principi democratici su cui si reggono molte società civili.

Di questa situazione dovrebbero essere preoccupati tutti coloro che hanno a cuore la convivenza democratica e che aborrono le tirannie. In modo particolare, chi come me si occupa professionalmente di comunicazione, dovrebbe opporsi alla diffusione di (dis)informazioni urlate e, spesso, completamente inventate. Mi spiego meglio. La sana e corretta competizione in comunicazione non può che trovare terreno di applicazione nei sistemi democratici, dove la dialettica è non solo consentita, ma rappresenta addirittura la spina dorsale del funzionamento della società civile e politica. Attenzione però: se l’eccesso di democrazia – sì, perché anche la democrazia può diventare eccessiva quando non prevede più né regole né arbitri – sfocia in una vera e propria anarchia, si prepara l’avvento della tirannia, come ben scriveva Platone (*vedi sotto – ndr), avvicinando così la fine del principio democratico basato sulla libertà di informazione e di comunicazione.

In questo, la diffusione sempre più capillare dei mezzi di comunicazione di massa e la proprietà di molti di essi concentrata in mano a lobby finanziarie e, di conseguenza, politiche, hanno sempre più reso possibile ed efficace un uso manipolatorio della comunicazione. E non mi riferisco solo alle cosiddette “macchine del fango”. Assai più frequentemente, la manipolazione delle coscienze e il loro indirizzo verso correnti di pensiero comuni e di massa è molto più sottile e impercettibile. E sono le situazioni più pericolose, quelle potenzialmente più deflagranti. Questo avviene da tempo con la carta stampata, con le radio e le TV, i mezzi che con maggiore frequenza entravano nella nostra vita quotidiana. Ma, la possibilità di scegliere tra un mezzo e l’altro come fonte di informazione salvava il principio democratico del libero arbitrio. Non dimenticate che pur sempre parliamo di media a “una via”: cioè, noi scegliamo una fonte di informazione e da questa ci approvvigioniamo, con un ruolo per noi ben preciso, quello dell’utenza, senza grandi possibilità di interazione.
Ma, da qualche anno a questa parte, un nuovo attore si è inserito nella nostra quotidianità: parlo della comunicazione digitale, quella dei social network, quella che ci ha improvvisamente tolto singolarmente e come massa dall’anonimo ruolo di semplici fruitori e ci ha innalzato a quello di comunicatori, opinionisti, veicolatori di messaggi, privati e pubblici. Parlo, è evidente, della tanto decantata “Rete”, la grande piazza virtuale dove tutti possiamo dire la nostra, esprimere le nostre visioni, nel modo che più ci aggrada, quasi senza regole di contenuto e di linguaggio. La Rete sembrava l’apoteosi della democrazia, il punto di arrivo di chi lotta contro le comunicazioni di “regime”. Si è invece trasformata in una trappola: da luogo di democrazia a piazza di anarchia, dove tutto è vero e niente lo è allo stesso tempo. Il grande "paese dei balocchi" dove tutto si trasforma in illusione mediatica. Piazza caduta in parte nelle mani di manipolatori di coscienze e di comunicatori di pochi o nulli scrupoli che, pur di “vendere la notizia” a favore del loro committente, inventano dati, ricerche, (dis)informazioni, notizie.

Una notizia su tre che oggi leggiamo sulla “Rete” è falsa. E spesso cadiamo nell’errore di condividerla, presi dall’incazzatura che ci provoca quell’azienda che inquina, quel politico che ruba, quei parlamentari che si aumentano le pensioni ogni trenta giorni ecc. Gridare sempre “al lupo, al lupo”, condendo il tutto con qualche vaffaqui e vaffalì ci fa correre il rischio di non distinguere più il vero lupo dalla nonnina.
Arriviamo così sull’orlo dello sfascio democratico che non potrà che tradursi in una grave crisi per noi che la comunicazione professionale la facciamo da sempre in modo etico, trasparente, documentato, provato. Ma "l’autorete della rete" si ritorcerà contro tutti, non solo contro chi comunica in modo onesto: tutti sconfitti e nessun vincitore. Quando la fuffa avrà permeato l’intero sistema, non ci sarà sopravvivenza professionale e ci troveremo nella “terra di nessuno”, dove non esisterà più esclusione di colpi. Ma se i comunicatori seri ne soffriranno, l’intera società civile non sarà più tutelata dal punto di vista delle correttezza delle fonti di informazione e quindi vincerà il più forte, il più ricco, il più potente, il più disonesto. Il comunicatore onesto è pur sempre garante e testimone professionale di una democrazia in atto, solida e viva. Se scompare il comunicatore, e con lui la comunicazione sincera e documentata, morirà la democrazia. E il dittatore, che appositamente tanta confusione ha saputo creare ad arte per discreditare tutto e tutti, vincerà e dominerà incontrastato. “In mezzo a tale licenza nasce e si sviluppa una mala pianta: la tirannia”…meditate gente, meditate!!


*La sete di libertà - di Platone
"Quando un popolo, divorato dalla sete della libertà, si trova ad avere a capo dei  coppieri che gliene versano quanta ne vuole, fino ad ubriacarlo, accade allora che, se i governanti resistono alle richieste dei sempre più esigenti sudditi, sono dichiarati tiranni. E avviene pure che chi si dimostra disciplinato nei confronti dei superiori è definito un uomo senza carattere, servo; che il padre impaurito finisce per trattare il figlio come suo pari, e non è più rispettato; che il maestro non osa rimproverare gli scolari e costoro si fanno beffe di  lui; che i giovani pretendano  gli  stessi  diritti, le stesse  considerazioni  dei  vecchi, e questi, per non parer troppo severi, diano ragione ai giovani. In questo clima di libertà, nel nome della medesima, non vi è più riguardo per nessuno. In mezzo a tale licenza nasce e si sviluppa una mala pianta: la tirannia."

giovedì 16 gennaio 2014

Le forbici della miseria...


Avete mai letto e riflettuto sul teorema di Joseph Stiglitz?
Stiglitz, economista di fama internazionale, sostiene una cosa molto semplice: l’apertura della forbice tra i “sempre più  sempre più ricchi e i sempre più sempre più poveri” – la stessa che un altro famoso economista scomparso di recente, John Kenneth Galbraith sosteneva “si sarebbe prima o poi inesorabilmente chiusa con grande dolore e sofferenza per tutti “ – crea povertà, frena la crescita dei PIL e getta le basi delle recessioni.
Il teorema parte da una considerazione semplice: la divaricazione crescente della forbice uccide la classe media, ma è proprio la classe media quella che ha la maggiore propensione ai consumi. Infatti, sostiene Stiglitz, nei Paesi dove esiste una vasta “middle-class” c’è una decisa e concreta prosperità.
Gli economisti definiscono “propensione al consumo” l’atteggiamento che le classi sociali hanno nei confronti degli acquisti. Paradossalmente, i più ricchi e benestanti ce l’hanno più bassa rispetto al ceto medio, preferendo accumulare, spesso in modo improduttivo , le ricchezze. Il ceto medio, invece, tende a spendere buona parte o addirittura tutto il reddito che percepisce e, così facendo, genera flussi economici che sollevano le economie. Le politiche economiche dei governi che favoriscono i ricchi e tolgono ai meno abbienti, sopprimendo buona parte della classe media che così diventa povera, procurano recessioni che potrebbero diventare devastanti.

Stiglitz sostiene che quando l’1% più ricco della popolazione si appropria del 25% del reddito complessivo scoppia la “bomba atomica recessiva”. E richiama alla memoria i momenti storici in cui ciò accadde, come avvenne con la Grande Crisi degli anni ’30 o, recentemente, con la recessione devastante del secolo in corso. Stiglitz scrive: “Gli apologeti  della diseguaglianza sostengono che dare più soldi ai più ricchi sarà un vantaggio per tutti, perché ciò porterebbe a una maggiore crescita. Si tratta di un’idea chiamata ‘trickle-down- economics’ (economia dell’effetto a cascata). Essa ha un lungo pedigree e da tempo è stata screditata”.
Il teorema di Stiglitz è semplice: “Se l’indice di Gini (ovvero l’indicatore di diseguaglianza inventato da un economista italiano, Corrado Gini - NdR) aumenta, e perciò cresce la diseguaglianza, il ‘moltiplicatore’ degli investimenti diminuisce e quindi il PIL frena e poi cala”. E non solo. Stiglitz, premio Nobel per l’economia nel 2001, sostiene anche che la diseguaglianza deprime il PIL, non solo per la caduta dei consumi, ma anche perché rende il sistema “inefficiente”, dato che prevalgono rendite e monopoli. La caccia alle rendite comporta, a suo parere, un vero e proprio spreco di risorse che riduce la produttività e il benessere di una Nazione.

Insomma, secondo molti economisti, tra cui Joseph Stiglitz, aveva ragione Robin Hood che toglieva ai ricchi per dare ai poveri: solo così facendo potremo generare un futuro di prosperità!

lunedì 30 settembre 2013

Buono dentro, bello fuori: così deve essere il vero cibo "Made in Italy"


Il mio amico Daniele Savi, uno dei più grandi esperti di enogastronomia che conosco, un giorno mi raccontava di quanti fantastici prodotti alimentari della nostra migliore tradizione mediterranea siano spesso purtroppo impresentabili per il “vestito” che portano.

Che buono quell’olio extravergine d’oliva, o quei taralli pugliesi… e che dire dei sott’oli toscani e dei salumi emiliani? Sì, ma che brutto marchio, che colori “poco alimentari”, che pessima scelta del materiale del packaging... Insomma, il cibo, prima di arrivare al palato, passa dagli occhi. E molto Made in Italy, di grande qualità organolettica, per pura e semplice  ignoranza delle regole del marketing e della comunicazione di chi li produce, invalida gli sforzi di anni di tradizioni, di “saper fare” del nostro incomparabilmente affascinante e storico territorio.

Questo diventa uno dei motivi (magari il più facilmente evitabile o risolvibile), per il quale realtà di grande gusto dell’enogastronomia italiana, rimangono spesso limitate negli angusti confini di contrade, alimentando quel nanismo dell’impresa del Belpaese che non riesce a fare sistema e a sfruttare né la bontà dei suoi prodotti né la fama del marchio “Made in Italy”, che ricordo essere il terzo brand più conosciuto al mondo.

In un convegno a cui ho assistito di recente si è molto discusso anche di materiali. Si diceva per esempio di quanto sia importante per un “liquido” poter essere visto attraverso un pack trasparente e dal bel design, tipicamente attraverso vasi e bottiglie di vetro, come antichissima tradizione vuole. Sono d’accordo: il cibo Made in Italy deve essere oltre che buono e di qualità anche ben confezionato perché, soprattutto all’estero, è questo ciò che si aspettano da un prodotto italiano: un design dell’involucro all’altezza della nostra fama nel “bello e buono”.

Che dire allora di un vino che invece di essere confezionato nella sua classica bottiglia di vetro, con un bel collarino e un’altrettanto bella etichetta (e ultimamente se ne vedono sul mercato di veramente interessanti…) viene messo su uno scaffale in un terribile cartone? E dell’olio extra vergine d’oliva (passi quello di semi) in una bottiglia di plastica? Che senso hanno queste scelte, se non quello di rappresentare puri contenimenti dei costi, a discapito però del fascino del prodotto, del contenuto emozionale che potrebbe trasferire, incapace così di distinguersi dalla concorrenza di prodotti di altro "made", con caratteristiche sicuramente meno ambite e ricercate?
Si potrebbe trattare del miglior vino e del più pregiato olio, ma non lo vedrete mai sulla mia tavola!!

martedì 16 luglio 2013

"Io sono Cultura" - L'Italia della qualità e della bellezza sfida la crisi


La Cultura è decisamente uno strumento che serve all’Italia per rilanciarsi in questi tempi di recessione e Symbola, la Fondazione per le Qualità Italiane, (www.symbola.net) se ne è occupata in maniera concreta nel suo Rapporto 2013, denominato “Io sono cultura, L’Italia della qualità e della bellezza sfida la crisi”, presentato all’Università di Macerata lo scorso 4 luglio 2013 e realizzato insieme a Unioncamere, con la collaborazione della Regione Marche.

L’Italia, per la sua storia e per i suoi “prodotti”, è conosciuta e globalmente stimata, sia a livello artistico che a livello commerciale. Difatti, in un ranking mondiale sulle diverse tipologie di prodotto esportate, l’Italia si classifica ai primi posti su 5.517 prodotti. Siamo di “tendenza”, infatti, quando si parla di design, moda, meccanica, fino ad arrivare al nostro punto forte, l’agro-alimentare.

Punto fondamentale del rapporto è la scoperta che la Cultura è anticiclica grazie al moltiplicatore culturale, che ci mostra come per ogni euro che si genera in un museo o sito archeologico, se ne producano altri 2 di ricchezza per il territorio. L’artigianato artistico, insieme alle altre industrie creative, ne generano ulteriori 2,1. La produzione di un audiovisivo, di un libro o di una rappresentazione teatrale ancora altri 1,2, dimostrando ampiamente, quindi, che investire in cultura conviene, contraddicendo quanti, in modo superficiale e poco informato affermano che “con la cultura non si mangia”!

La Cultura, inoltre, contamina altri settori in modo diretto: i trasporti, il turismo, il commercio, la comunicazione e il marketing solo per citarne alcuni. Crea un effetto traino che porta a generare valore economico e sociale, cosa assai necessaria in questo momento particolare in cui ci troviamo.
Quando si parla del “sistema produttivo culturale”, ci si riferisce sicuramente al nostro ben conosciuto patrimonio storico-artistico, ma anche alle “performing arts”, cioè  all’intrattenimento, come la radio, il cinema, il design, l’editoria e così via. Se analizziamo il moltiplicatore del settore, in termini monetari, gli 80,8 miliardi di euro di valore aggiunto realizzati da tutti i comparti produttivi che si occupano di Cultura (inclusa la componente pubblica e quella non profit) nel 2012, sono riusciti ad attivare quasi 133,4 miliardi di euro, delineando una filiera culturale intesa in senso lato di 214,2 miliardi di euro, che equivalgono al 15,3% del PIL prodotto dall’intera economia del nostro Paese. Tra le regioni più virtuose, in grado di generare un buon moltiplicatore della ricchezza della cultura, troviamo il Friuli-Venezia Giulia, il Veneto, la Toscana e la Lombardia, seguite dalle Marche. Chiudono questa classifica la Liguria, il Molise, la Sardegna e la Calabria.
 
Nell’attuale situazione, purtroppo, le industrie culturali stanno sperimentando la ritrazione del sostegno pubblico, anche se la logica spingerebbe a non fare inaridire questa vena fertilissima. Ed è così che di fronte ai tagli pubblici subìti, si crea il bisogno di trovare finanziamenti, generando molteplici  iniziative di "crowdfunding digitale", una nuova maniera di raccogliere investimenti privati per progetti attraverso la "rete", come, tanto per citare un esempio, www.siamosoci.com

La Cultura italiana ha dimostrato, attraverso proficui risultati, che è il nostro grande e forse inestimabile patrimonio da conservare e coltivare con cura. Dobbiamo istituzionalmente e come popolo sentire la responsabilità di questo compito. In primo luogo, perché siamo debitori di questa tutela verso il nostro Paese e verso il resto del mondo e, in una prospettiva più commerciale, perché ci restituisce una grande ricchezza sul territorio, come il moltiplicatore culturale dimostra.

Questa risorsa, che è anticiclica, sostiene un’immagine internazionale di commercio molto competitiva, da alimentare con futuri  piani imprenditoriali, anche basati sul crowdfunding, che  rilanceranno e porteranno sempre più valore al territorio di pertinenza.

lunedì 8 luglio 2013

"L'Italia deve fare l'Italia!"


Non mi piace fare l’ottimista a tutti i costi. Ma, parafrasando Sant’Agostino che sosteneva che “il diavolo è solo un modo diverso di guardare Dio”, intendendo con ciò che la medaglia ha sempre due facce da osservare con occhi sinceri e soprattutto onesti, senza pregiudizi di sorta, direi che anche il nostro Made in Italy possa essere valutato secondo diversi punti di vista.

Da una parte, è vero, stiamo perdendo alcuni nostri pezzi pregiati. E’ di queste ore che anche "Loro Piana" è finita sotto le “grinfie” francesi, per esempio. Da questo stesso punto di vista c’è sempre da considerare la progressiva perdita di credibilità di cui, complice una classe politica inadeguata, sta ancora soffrendo il nostro beneamato Paese. “Il modello di specializzazione dell’Italia è molto simile a quello di Paesi emergenti come la Cina – si legge sull’ultimo rapporto, datato 4 aprile 2013, dedicato all’Italia dalla Commissione Europea – con la maggior parte del valore aggiunto in settori tradizionali a bassa tecnologia, principalmente a causa della limitata capacità innovativa delle imprese italiane”.

Ma, è proprio così? Siamo così scarsi con le nuove tecnologie e siamo così poco competitivi in termini di innovazione complessiva? Anche qui dipende dai punti di vista e, soprattutto, dalle lenti del pregiudizio, che condizionano. E non poco.

E’ stato appena pubblicato un importante e decisamente sorprendente rapporto (almeno per chi usa gli occhiali sbagliati) realizzato congiuntamente dalla Fondazione Symbola, da Unioncamere e dalla Fondazione Edison che si chiama “I.T.A.L.I.A. – Geografie del nuovo Made in Italy” che ci mostra e dimostra, numeri alla mano, un’Italia diversa.

Intanto, I.T.A.L.I.A., è un acronimo che sta per “Industria, Turismo, Agroalimentare, Localismo e Sussidiarietà, Innovazione, Arte e Cultura”, in poche parole i pilastri del Made in Italy, le frecce all’arco del nostro Paese nei confronti del mondo. Lo studio è corposo e ne consiglio un’approfondita lettura perché, statene certi, non troverete niente di scontato.

Mi limito a darvi qualche chicca che, spero, vi invoglierà a cercarlo e a scaricarvelo dal sito di Symbola (www.symbola.net).

Cominciamo con un numero: quasi mille prodotti “Made in Italy”, nonostante l’indubbia crisi economica che sta investendo l’Italia come la maggior parte del mondo, generano un saldo commerciale attivo da record di ben 183 miliardi di dollari! Nel rapporto, infatti, mentre si ammette l’indubbia difficoltà di cui sta soffrendo il nostro mercato interno, si sottolinea come non si possano continuare ad adottare parametri obsoleti, quali la quota di mercato detenuta sull’export mondiale, per misurare la competitività del sistema produttivo italiano. Se invece prendiamo come indicatore della nostra competitività la bilancia commerciale dei singoli prodotti, ecco come i risultati cambiano enormemente ed emergono la creatività e la duttilità del nostro Made in Italy, con le conseguenti capacità di far fronte, al mutare degli scenari e ai marosi della crisi economica. Infatti, l’Italia è uno dei soli 5 Paesi del G-20 (insieme a Cina, Germania, Giappone e Sud Corea) ad avere un surplus strutturale con l’estero nei prodotti manufatti non alimentari. Ciò vuol dire che, escludendo l’energia e le materie prime agricole e minerarie, l’Italia è uno dei Paesi più competitivi a livello mondiale. Stupiti? Eppure, lo dicono i numeri, vantiamo quasi 1000 prodotti in cui siamo nei primi tre posti al mondo per saldo commerciale attivo con l’estero. Nel rapporto si usa un’efficace metafora: quella dell’Olimpiade. Se pensiamo al mercato globale come a un’Olimpiade e ai prodotti come altrettante discipline sportive in cui primeggia chi ha un export decisamente migliore dell’import, l’Italia sale sul podio ben 1000 volte! Meglio di noi si comportano solo, e sottolineo solo, Cina, Germania e USA. Ed è ovvio che, se poi guardiamo esclusivamente all’Europa, il campionato europeo lo perdiamo solo nei confronti della Germania, noi ben davanti alla Francia, per esempio, le cui finanziarie stanno facendo shopping dalle nostre parti.

Se andiamo nel dettaglio, continuando con la nostra metafora, l’Italia vanta 235 medaglie d’oro (cioè altrettanti prodotti!) per saldo commerciale. Queste eccellenze del podio ci portano a guadagnare, come sistema Paese, ben 63 miliardi di dollari. Le “medaglie d’argento”, che sono 390, contribuiscono con ulteriori 74 miliardi di dollari di attivo. Completano il podio le “medaglie di bronzo” dell’export italiano: 321 prodotti che portano ancora 45 miliardi di valore complessivo. Da non dimenticare poi i quarti e quinti in classifica, pur sempre altrettante "eccellenze", che sono ben 492 prodotti, che aggiungono ulteriori 38,4 miliardi di dollari, da sommare ai 183 miliardi dei primi tre classificati.

Basta ciò per essere contenti e soddisfatti? Sicuramente no! Il rapporto però traccia delle chiare linee guida per le istituzioni e per la classe dirigente di questo Paese, su quanto l’Italia dovrebbe fare per uscire, e in fretta, da questa crisi, magari addirittura rinforzata rispetto a prima del suo esplodere. La ricetta? "L'Italia, deve fare l’Italia” e null’altro! Sarebbe difatti già molto procedere secondo le “nostre corde”, quelle che abbiamo da secoli a disposizione, grazie alle competenze e alle tipicità accumulate dai nostri territori. Ciò basterebbe ad accaparrarsi sempre più medaglie d’oro sul terreno della competitività mondiale, moltiplicando quindi la ricchezza che da queste si genera e migliorando di conseguenza lo stato di salute della nostra economia.

Mi fermo qui, sperando di avervi solleticato l’interesse per un approfondimento e per una lettura del rapporto completo che, ripeto, per molti versi potrebbe risultare sorprendente. Come diceva Thomas Alva Edison: “Se fossimo ciò che siamo capaci di fare, rimarremmo letteralmente sbalorditi”.

giovedì 20 giugno 2013

"Se qualcosa può andare male, lo farà in triplice copia!" (Arthur Bloch)


Scriveva Ephraim Kishon, in Paradiso come nuovo affittasi, che “I burocrati sono numerosi come i granelli di sabbia in riva al mare. Con la differenza che la sabbia non prende lo stipendio.”
E’ un’opinione diffusa e, purtroppo, confermata dai fatti che se i burocrati e la burocrazia in genere rappresentano una delle “palle al piede” di qualsiasi progresso sociale, politico ed economico, in tutto il mondo, questo aspetto in Italia raggiunge livelli insopportabili. E se ciò è vero sempre e a prescindere, lo è ancora di più in momenti gravemente recessivi come questi, quando sulla velocità delle azioni, sulla rapidità dei movimenti e delle “intraprese” si fondano le possibilità di restare a galla e di non affondare con tutta la nostra bella Penisola.

Quindi, se guardiamo all’esercito dei burocrati che ingrossa le fila delle istituzioni pubbliche italiane, letteralmente osteggiando quel qualcosa che si cerca di fare per rilanciare la nostra economia, la definizione di Kishon ci porta a concludere che oltre al danno dell’immobilità cui ci costringono, dobbiamo metterci anche l’elevato costo pubblico rappresentato da stipendi in buona parte inutili. Naturalmente, non voglio fare di tutta l’erba un fascio, e non voglio dire che tutti coloro che lavorano nella burocrazia italiana siano dei “fancazzisti” succhia soldi. Ci sono anche fior di professionisti, per capacità e correttezza. Resta però il fatto che, anche senza essere il Gabibbo di “Striscia la notizia”, basta girare un po’ l’Italia per mettere insieme un’enciclopedia di vessazioni, di inefficienze, di sprechi e di inettitudini che derivano da uffici pubblici mal gestiti e peggio diretti.

Ma la cosa che trovo più insopportabile è il tentativo di molti di questi signori di evitare di prendersi delle responsabilità. Quelle responsabilità che invece, per ruolo e mansione, dovrebbero accettare e di cui dovrebbero rispondere all’opinione pubblica. Comodo non fare, per non dover poi render conto di quanto fatto!

Il risultato? Tempi lunghissimi per autorizzazioni di qualsiasi natura, imprese che falliscono ancor prima di esser riuscite a compiere un solo atto produttivo, a causa della mancanza di risposte che non arrivano dagli uffici preposti per darle. E un Paese che langue, asfissiato da chi dovrebbe curare gli interessi collettivi e che invece si preoccupa solo dei propri personali e di quelli del “branco” che rappresenta. Del resto, lo descriveva bene già Ennio Flaiano, quando scriveva: “Gli presentano il progetto per lo snellimento della burocrazia. Deplora l'assenza del modulo H. Conclude che passerà il progetto, per un sollecito esame, all'ufficio competente, che sta creando…”.

Cosa aspetta la politica a sfoltire questi uffici e a snellire le procedure per portarci alla pari del resto d’Europa? Sono convinto che noi italiani abbiamo “una marcia in più” dal punto di vista imprenditoriale e del saper fare, ma se questa marcia viene a essere messa costantemente “in folle” dall’apparato pubblico, la macchina non riesce nemmeno a raggiungere la strada e a intraprendere il percorso per raggiungere un obiettivo che, alla fine, dovrebbe essere condiviso. Perché, caro burocrate, su quell’auto ci siamo tutti e se non partirà mai, o se a forza di farla rallentare la fermi completamente, prima o poi rimarrai a piedi anche tu…!

martedì 11 giugno 2013

“Le parole hanno il potere di distruggere o di risanare. Quando sono vere e gentili, possono cambiare il mondo”.


Il Buddha diceva che “Le parole hanno il potere di distruggere o di risanare. Quando sono vere e gentili, possono cambiare il mondo”.

Di solito, non entro nel merito diretto della politica intesa come “competizione fra partiti”, ma stavolta faccio un’eccezione. In fondo, mi occupo da 25 anni di comunicazione e, alla fine, in un modo o nell’altro, qualcosa ho imparato, nel mio piccolo. Mi faccio quindi un po’ i fatti di Grillo e del suo Movimento e mi permetto, in punta di piedi, di far riflettere sul loro modo di fare comunicazione. Perciò, non mi occupo del programma politico, della sua proposta o se il Movimento abbia fatto bene o male a non fare il Governo con Bersani. Ho le mie idee al proposito, ma lascio ad altri esprimere commenti pubblici su ciò. Io guardo alla comunicazione e alle reazioni della gente.

E’ un dato di fatto inconfutabile, penso, che il M5S abbia rappresentato una “ventata di novità” nel panorama politico italiano. E’ altrettanto indiscutibile che l’importante affermazione elettorale ottenuta alle “politiche” non solo lo abbia messo in grado di fare da “ago della bilancia” nella governabilità di questo Paese, ma, anche e soprattutto, abbia imposto serie revisioni interne agli altri partiti e al “sistema politico” in generale. Quindi, credo che gli italiani, a febbraio, fossero in gran parte contenti di questo successo del M5S, anche non avendolo votato, perché era indubbio che, finalmente, qualcosa di nuovo stesse accadendo in questo Paese spesso troppo immobile. Ma, nel giro di tre mesi, questo importante patrimonio “rivoluzionario” è andato perso, forse non irrimediabilmente, ma comunque per ora messo da parte.

Quanti di voi, come me, hanno avuto amici che tradizionalmente votano per  la “destra” o per la “sinistra” politica e che a febbraio hanno votato per il M5S? Molti, vero? Alcuni di questi miei amici, mi hanno proprio sorpreso, quando mi hanno confessato di averlo fatto. Non avrei mai pensato che quella pensionata, innamorata del Cavaliere, lo avrebbe “tradito” con Grillo; né che quel giovane attivista del PD, si sarebbe fatto affascinare dal Movimento “non partito”, mettendoci sopra una X sulla scheda elettorale. Eppure, è successo, e per milioni di voti!

Ma di questi miei conoscenti, coloro almeno che si sono dovuti confrontare con le “amministrative” e che quindi han dovuto rifare la scelta elettorale, non uno ha rivotato il M5S, preferendo il ritorno alle vecchie e tradizionali liste civiche espressioni di più rassicuranti – evidentemente per loro – modi di fare politica.

Io credo che l’errore di Grillo in questi mesi sia stato evidente. Continuare a vedere il “bicchiere mezzo vuoto”, l’Italia sull’orlo del fallimento, ribattere in maniera martellante la mancanza di speranza per questo povero Paese, il darci già tutti per spacciati non può farti andare troppo lontano. O meglio, serve all’inizio, quando diventi collettore di tutto il malcontento di un Paese, di tutta la rabbia che si è accumulata contro una classe politica privilegiata e inetta che ha fatto ben poco per il bene comune. Ma poi la gente ti ha votato e, di conseguenza, si aspetta delle proposte, se non addirittura la conduzione del sistema, il governo, la responsabilità di chi fa. Continuare a inveire, a ululare alla luna, a vedere la tragedia dietro l’angolo non solo non serve, ma porta il popolo a prendere le distanze, soprattutto gli italiani, se non altro per stanchezza e bisogno di una luce in fondo al tunnel. E’ vero che un pessimista è “un’ottimista bene informato”, ma dopo, a lungo andare, la tua pesantezza ti fa fare la fine di Totò nel film in cui interpretava lo iettatore (“anatema a te!”): la gente ti evita e fa gli scongiuri pur di non aver più a che fare con la tua maledizione perennemente lanciata! Insomma, nella storia della comunicazione politica di tutto il mondo si può vedere come, dopo un periodo di sacrosanta denuncia e informazione, subentri la fase della proposta non urlata, ma concreta, del rispetto di chi la pensa diversamente da te e un domani potrebbe anche sostenerti. Arriva il momento dell’ “I have a dream”, del “Yes, We can” ecc.

Allora tutti gli anni sprecati dalla sinistra italiana a cercare di cancellare, sempre con la comunicazione, la controparte berlusconiana con le accuse “ad personam”, perdendo poi regolarmente le elezioni, non hanno insegnato niente? Intanto, si dovrebbe imparare che, alla fine, la gente, anche se magari passa una prima fase di rabbia, tende poi a prendere le parti dell’underdog, come dicono gli anglosassoni, cioè delle vittime, degli accusati, per quello spontaneo movimento di identificazione verso chi viene vessato da insulti e accuse che non riescono però a dargli il KO definitivo, e che alla lunga anzi lo rinforzano. E poi, perché se tutto il tuo impegno sta nel cercare dialetticamente di cancellare l’avversario, non ti rimane spazio per dire cosa andrebbe fatto per evitare che la barca affondi. O, perlomeno, alla gente non arriva più la tua proposta perché assillata dalle accuse, dalle battute, dalle irrisioni nei confronti dei tuoi avversari politici, dei loro elettori, dei giornalisti e dei media in generale. Anatema verso tutto e tutti, perciò, con il risultato che corriamo a cercarci in tasca l’amuleto personale, ma forse mettiamo da parte, magari definitivamente, quella speranza che qualcosa sarebbe cambiato e che questo Paese sarebbe diventato, dal punto di vista politico e istituzionale, un po’ più “normale” e moderno! Peccato…