martedì 5 febbraio 2013


Ci sono un Italiano, un tedesco e un francese…
Le barzellette si sa, la prima volta fanno ridere, la seconda un po’ meno, la terza danno decisamente fastidio. Soprattutto se confortate dalla realtà. E quindi, a fianco di un “Made in Italy” che è su scala planetaria sinonimo di eccellenza, gusto, lavoro, storia e cultura, ce n’è un altro con la “m” decisamente minuscola che occupa le copertine della stampa internazionale, ma su cui c’è ben poco da sorridere, perlomeno in Italia. E’ quello delle mafie, della corruzione, della millanteria, dei pressapochismi e di una burocrazia malata. Ce n’è un terzo, altrettanto poco edificante nella sua “maiuscola” capacità di rappresentare, al peggio, l’italianità nel mondo. Dico al peggio perché sto parlando proprio di quella classe deputata ad essere la voce legittima e istituzionale del popolo italiano. La classe politica appunto. Mi rendo conto che affrontare un tema di tale portata in questo momento espone a non pochi rischi. Il primo è quello di fare di tutta un’erba un fascio. Conosco infatti tanti politici “professionisti” nella migliore accezione del termine. Seri, responsabili e “integri”. Poi si corre il pericolo di buttare via il bambino insieme all’acqua sporca. E qui mi riferisco alla cosiddetta “antipolitica” costellata di demagoghi anarcoidi con il loro disfattismo nichilista fatto di iperboli tese solo a fomentare lo sdegno popolare. Molto pericoloso perché, come insegna la storia, è l’embrione della dittatura. Stabiliti i due limiti della retta, in mezzo c’è la cosiddetta casta. Fatta di politici “per privilegio” più che per impegno e senso della cosa pubblica. La cui notorietà è in grado di gettare in un cono d’ombra quell’altra Italia che la reputazione se l’è costruita con l’impegno del lavoro, di giorno in giorno e di generazione in generazione. Che non ha avuto niente per “investitura divina” e che, con questo niente, è riuscita a fare così tanto. E’ davvero triste che questa Italia, quella vera, sia zittita dalle cortigianerie dei cabarettisti di regime. Dalla farloccaggine di promesse puntualmente disattese e riformulate, perché tanto la colpa del fallimento è sempre di qualcun altro; per non parlare del chiacchiericcio pretestuoso sulla difesa dello “spread”, concetto che fino a pochi anni fa otteneva ben poco seguito al di fuori delle aule bocconiane, come unico parametro su cui valutare la distanza dallo sprofondo. No, l’Italia non merita tutto questo anche se di tutto questo è importante che prenda la chiara consapevolezza di una responsabilità che deriva direttamente dall’esercizio elettorale. Io, da oltre venticinque anni, mi occupo di comunicazione e da sempre sostengo che la comunicazione, gestita ad arte, faccia diventare grandi perfino i piccoli e i meschini: “ed è sempre così ed è così che finisce sempre”, come recita Lawrence Ferlinghetti. Ma io  vorrei dare un finale diverso a questo racconto cominciato così male. Dalla mia parte ho le storie –  tutte vere – dell’Italia che, da comunicatore, non ho mai smesso di raccontare. L’ambizione che una piccola voce, come la mia, possa contribuire ad amplificare quell’Italia che è stanca di essere “piccola” o zittita. La speranza che quell’Italia ricominci a scrivere in prima persona la sua storia. Anche partendo da una introduzione, come questa, in cui c’è ben poco da ridere...

4 commenti:

  1. Caro Ale, non posso che concordare! E concordando sono entusiasta dell'idea di leggere le storie di quell'Italia sana, vera e onesta di cui essere orgogliosi!

    RispondiElimina
  2. E poniamo che, mentre tu t'industrii ad evidenziare l'Italia proba, viene da te un piccolo e meschino che, essendo arrivato nonsisacome a diventare EMEA manager di qualche pregevole multinazionale, ti chiede di elevarlo tramite le nostre arti comunicazionali a proiettare l'ombra di un gigante sui nostri capienti media servili, tu che fai?
    Lo stendi per quel che è o lo prendi in braccio per quel che paga?

    Io nel mio piccolo faccio "volontariato culturale" da anni senza averne mai lucrato uno scranno in quslche commissione cultura (come mi rimproverava un amico giornalista RAI di non aver mai "fatto politica, ché adesso saresti..."), ma il nostro lavoro - quello per cui fino a 2 mesi fa pagavano anche me e magari tra poco riprenderò a fare in qualche forma - mi lascia sempre il dubbio che alla fine siamo anche noi collaborazionisti dei nostri aguzzini.
    Rivediti Salò... ;-)

    RispondiElimina
  3. Caro, c'è sicuramente del vero in ciò che dici, anche perché "tutto è connesso" e la legge di "causa effetto" che permea l'Universo non la inventiamo certo noi. Certamente, quando sei a capo di una comunità, come nel mio caso, devi scendere a compromessi, il che però non significa diventare né servili né vivere genuflessi. Ho sempre pensato che sia sbagliato erigersi a giudici, mettendo da una parte i "buoni" e dall'altra i "cattivi". Lo cantava anche Bennato, ricordi?, non senza una bella punta di sarcasmo verso i "signor censori" che decidevano chi faceva del bene e chi del male. Chi sono io per dire che quell'EMEA manager non possa fare anche lui cose positive, contribuendo alla creazione e redistribuzione di progresso e ricchezza e a un miglioramento sociale di chi lavora o lavorerà per lui e per l'azienda che dirige? Diverso è lavorare per produzioni pericolose, armi, ecc. lì dove sei effettivamente sicuro che dalla parte dei "cattivi" è giusto che ci finiscano perché è troppo evidente che lo siano. Tu fai bene a fare volontariato culturale. In fondo, lo faccio anche io da sempre, perché se fossi remunerato per quanto predichiamo nelle aziende, nelle istituzioni, presso i manager pubblici e privati su come sarebbe giusto lavorare per rilanciare le rispettive strutture, avrei la "barchetta a Portofino", invece dei debiti. Ma a me piace e questo blog lo tengo perché sono convinto di questa "via", anche se questa "via" al momento non mi remunera certo...

    RispondiElimina
  4. Sono molto d'accordo con le parole di Ale. Di fatto, non credo spetti a un comunicatore (come un avvocato) di ergersi a giudice dei valori (o disvalori morali dei propri clienti). Allo stesso tempo credo che un comunicatore possa decidere di calibrare la propria professione nei limiti del proprio sitema di valori morali (io, ad esempio, non lavorerei mai per fabbricanti di armi o per siti di scommesse...su alcool e tabacco invece sono "onestamente" più laico). Ma credo più di tutto che, per come si può, per quel che si può e tenendo conto che la priorità è per tutti quella di mettere insieme il pranzo con la cena, sia importante farsi provocatori di un "circolo virtuoso". Magari fa cambiare idea anche agli aguzzini perchè si rendono conto che conviene pure loro (il tracollo, come dimostra benissimo Salò, alla fine non risparmnia nessuno). Magari ci salva dalle loro morse (mica saranno tutti così). O forse non serve a niente, ma almeno ci abbianmo provato e questo, per quanto mi riguarda, garantisce sonni un po' meno agitati.

    RispondiElimina